Di Andrea Persi
Il rispetto ossessivo per le figure autoritarie che vigeva nel nostro cinema fino agli anni ’60, condusse la censura a deturpare con ben 82 tagli il film Totò e Carolina in cui, il principe della risata interpretava un integerrimo ma bonario agente di polizia e a specificare nei titoli di testa di Pane, amore e gelosia che i personaggi, soprattutto il passionale maresciallo Carotenuto, interpretato da Vittorio De Sica e le vicende narrate erano frutto di fantasia. Gli agenti segreti, in quanto creature quasi mitologiche nella mente del pubblico, non hanno invece mai goduto di tale privilegio e anzi, grazie ai film di James Bond, hanno ispirato un fortunato filone parodistico che ha interessato sia il cinema straniero, si pensi al surreale James Bond 007 – Casino Royale del 1967 o al nostrano Due mafiosi contro Goldginger con Franco e Ciccio. A cui si aggiunge il terzo capitolo, dall’ 11 ottobre al cinema, della saga sull’imbranato agente dell’immaginario MI7, dipartimento dei servizi segreti inglesi addetto alla propaganda durante la seconda guerra mondiale ma ora soppresso se non nella finzione per non citare, in una forma di velata censura, i realmente esistenti MI5 e MI6, Johnny English dopo ben 15 anni dalla prima pellicola e 7 dalla seconda. A dirigere il protagonista Rowan Atkinson, reduce da una parentesi televisiva “seria” nei panni del Commissario Maigret, troviamo il regista televisivo David Kerr, che si avvale della sceneggiatura di William Davies (I gemelli, Fermati, o mamma spara), la fotografia di Florian Hoffmeister e le musiche di Howard Goodal (Mr Bean, l’ultima catastrofe).
Un misterioso attacco informatico fa saltare la copertura di tutti gli agenti segreti britannici alla vigilia di un importante summit internazionale, costringendo il primo ministro (Emma Thompson) a richiamare in servizio il vanesio e pasticcione Johnny English (Rowan Atkinson) che, assieme al fidato Angus Bough (Ben Miller), si mette, di disastro in disastro, sulle tracce del pericoloso hacker, incrociando nel corso dell’indagine la misteriosa e affascinante Ophelia (Olga Kurylenko).
Messo in un angoletto della sceneggiatura, si veda la scena della discoteca, l’umorismo slapstick che ha reso famoso il protagonista con il suo Mr. Bean (del quale Johnny English conserva tutto l’antipatico egocentrismo, destinato, anche qui, a essere messo in ridicolo), il film si concentra sulla presa in giro di un agente segreto inetto e tenace quanto l’ispettore Clouseau, fossilizzato su stereotipi pop come l’Aston Martin di 007 e contrapposto a un mondo in cui i servizi segreti sembrano essere gestiti come un Apple store. Però Atkinson, nonostante la buona volontà, non è Peter Sellers e il meccanismo se a volte funziona, come nella spassosa scena della realtà virtuale, altre fa cilecca risolvendosi in sequenze prevedibili come quella dell’inseguimento, con la conseguenza che l’effetto comico viene talmente diluito che, per dirla con il regista Hal Roach, il pubblico smette troppo spesso di ridere.
Johnny English, insomma, non colpisce, ma, al massimo, solletica garbatamente il pubblico.