Di Andrea Persi
Ci sono due modi in cui il cinema americano celebra il trionfo dei propri valori nazionali contro le avversità. C’è il “the Rock movie” (dal nome del fisicatissimo interprete dei più capitoli di Fast & Furious, in cui il protagonista compie gesta che sfidano spesso la logica nonché le leggi della fisica, pensiamo a Mel Gibson ne Il Patriota che massacra con a colpi di moschetto una pattuglia inglese aiutato da un paio di bambini e gli “Eastwood movie” (dal nome del grande regista e attore) che pur non rinunciando alla retorica, riescono in qualche modo a nasconderla allo spettatore, pensiamo a Salvate il soldato Ryan di Spielberg che inizia e termina col primo piano della bandiera americana ma che riesce a evitare l’autocompiacimento nazionalistico.
Di questa accoppiata sono emblematici due film sullo stesso evento, l’attacco terroristico alla Maratona di Boston, prodotti a due anni di distanza da loro. Il primo Boston – Caccia all’uomo, diretto da Peter Berg e interpretato da Mark Wahlberg nonostante il buon taglio narrativo è quasi imbarazzante per l’atteggiamento da western di serie B dei personaggi e della situazioni, mentre il secondo, Stronger, basato su una storia vera e in uscita nel nostro Paese il prossimo 4 luglio dopo essere stato presentato allo scorso Festival del Cinema di Roma, è interpretato da Jake Gyllenhaal, qui anche produttore, per la regia di David Gordon Green (regista del sequel\reboot della saga di Halloween con protagonista l’ inossidabile Jamie Lee Curtis), la sceneggiatura di John Pollono, la fotografia di Sean Bobbitt (12 anni schiavo) e le musiche di Michael Brook (Noi siamo infinto).
Jeff Bauman (Jake Gyllenhaal) è un ragazzo di Boston, innamoratissimo della bella Erin (Tatiana Maslany) che però non sembra che vedere in lui altro che un amico. Nel tentativo di far colpo sulla ragazza Jeff si reca alla maratona cittadina per fare il tifo per lei, rimanendo vittima dell’attentato del 15 aprile 2013 e finendo su una sedia a rotelle. Per il giovane comincia, così, un lungo e doloroso percorso superare il trauma e le menomazioni, ma anche per convivere col ruolo di simbolo di un Paese ferito che cerca di risollevarsi.
Un film di ferite (fisiche e non) e di riconciliazioni del protagonista prima col proprio corpo martoriato, poi con le persone che gli stanno attorno, dalla ragazza che ama alla famiglia che pur volendogli bene si dimostra incapace di capirne il dolore e, infine, con la sua nuova vita e il suo ruolo di icona nazionale che non ha caso avviene in maniera quasi catartica attraverso l’incontro con l’uomo che lo ha aiutato e durante il quale, in uno dei momenti di maggior emozione del film ci viene finalmente mostrato il momento dell’attentato, volutamente nascostoci per l’intera pellicola nella quale assistiamo, in una prima parte immersa in un’allucinata fotografia verde ospedale, alla guarigione fisica e nella seconda a quella emotiva del protagonista tra momenti di solitudine e disperazione, alternate a effimeri barlumi di speranza.
Jake Gyllenhaal, recuperando all’età di 38 anni il ruolo che lo ha reso famoso del bravo ragazzo non troppo sveglio, offre allo spettatore una perfomance notevole che lo mette di sicuro in lizza per i prossimi Oscar all’interno di cast discreto con l’eccezione della bravissima Miranda Richardson nella parte della madre del protagonista.
Un film commovente, anche se a tratti inevitabilmente retorico, sul coraggio e la forza dello spirito umano.